L’Editoriale

Obama, cosa aspettarsi in Medio Oriente

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 12 novembre 2012

Cosa aspettarsi da Obama in Medio Oriente? Non molto, probabilmente. L’unica urgenza è il programma nucleare dell’Iran, su cui l’Amministrazione USA, tenendo ferma la sua contrarietà a che Teheran si doti dell’arma nucleare, cercherà probabilmente di portare avanti l’opzione negoziale, tentando di contenere le ricorrenti tentazioni israeliane di blitz preventivi. L’insediamento di Obama viene a cadere nel periodo delle elezioni israeliane del prossimo gennaio, a cui Netanyahu si presenta insieme al leader di destra Avigdor Lieberman, e la coincidenza non è rassicurante.

Per quanto riguarda più in generale il conflitto israelo-palestinese, molti esperti sostengono che, dopo il sostanziale fallimento registrato durante il suo primo mandato, Obama si terrà alla larga dal problema: sarà infatti assorbito dalle assillanti questioni interne, dal debito, alle tasse, all’occupazione, al rilancio della crescita. D’altronde, se cercherà di trovare un terreno d’intesa e di compromesso con l’opposizione repubblicana su tali aspetti, è probabile che eviti di spingere su problematiche spinose come quelle mediorientali: un comportamento già adottato quando si era trattato di far passare la riforma sanitaria.

Secondo altri, invece, il Presidente USA oramai è più libero e autonomo, non avendo davanti un problema di rielezione, e può sentirsi meno esposto alle pressioni delle diverse lobbies filo-israeliane. Certo può essere forte la tentazione di rendere la pariglia al Premier israeliano, che ha interferito pesantemente nella campagna presidenziale americana, appoggiando apertamente il candidato repubblicano Romney, e che anche in passato non ha perso occasione per contrapporsi pubblicamente al Presidente degli Stati Uniti: ora la scadenza elettorale in Israele potrebbe essere un’occasione ghiotta per rendere pan per focaccia. Il problema è che manca a tutt’oggi un candidato alternativo credibile, a meno che, superando i diversi inciampi giudiziari, non arrivi a presentarsi l’ex Premier Ehud Olmert, magari in tandem con l’ex leader di Kadima Tzipi Livni.

Se la scelta fosse quella di tornare ad occuparsi del conflitto, Obama dovrebbe comunque far tesoro dell’esperienza passata, rovesciando la scelta fatta nel suo discorso del Cairo del giugno 2009, quando individuò nel blocco degli insediamenti israeliani la priorità numero uno, facendone una pregiudiziale e spingendo anche i palestinesi a farla propria, salvo innestare poi una brusca retromarcia, cacciandoli così in un vicolo cieco.

Una retromarcia dovuta essenzialmente a considerazioni elettorali interne, che tuttavia ha fatto perdere credibilità e autorevolezza alla leadership americana in tutta l’area.

Sarebbe stato invece più giusto partire dagli esiti della Conferenza di Annapolis del novembre 2007, e dai successivi negoziati Olmert-Abbas: puntando sul Final Status, ed in particolare sulla definizione dei confini, entro cui poteva rientrare e trovare soluzione la questione degli insediamenti. Ciò tra l’altro avrebbe reso più difficile l’arroccamento di Netanyahu, facendo invece esplodere le contraddizioni sulle scelte di fondo cui è chiamato Israele.

Questa potrebbe essere la scelta giusta anche oggi, capace di rimettere in moto il processo di pace, sbloccando la situazione di stallo attuale: individuare i parametri generali di un possibile accordo, farli ratificare se possibile attraverso un passaggio al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e poi chiamare i protagonisti del conflitto a misurarsi su di essi.

Obama dovrebbe anche andare di persona in Israele e in Palestina, e parlare direttamente a quelle popolazioni, a quelle opinioni pubbliche e alle loro leadership, cosa che fino ad oggi ha inspiegabilmente evitato, lasciando che soprattutto in Israele si stratificasse una sensazione di lontananza e di sostanziale estraneità.

Ma come si è detto è molto più probabile che il riconfermato Presidente USA si limiti a operazioni di facciata in Medio Oriente, concentrandosi su altri aspetti di politica interna e anche estera. La questione israelo-palestinese verrebbe considerata, oramai, come marginale o residuale, e lasciata in stand-by, fino a nuovo ordine. Il management dello Status quo può anche essere preferibile al movimento, se non si sa quale direzione prendere, dove si vuole andare e con quali mezzi arrivarci.

Quanto alla Siria, l’Amministrazione USA non ha nessuna intenzione d’impelagarsi direttamente nella crisi del Paese, al di là di un sostegno generico ai ribelli, assicurando loro informazioni e un po’ di armi. In Siria non c’è la lotta d’insurrezione di un popolo contro il tiranno, ma una guerra civile tra componenti diverse della società. Da una situazione simile non si viene fuori con la vittoria di una parte sull’altra, ma con una soluzione concordata di fuoriuscita, con un approccio inclusivo che tenga conto anche degli stakeholder coinvolti, a cominciare dalla Russia e dallo stesso Iran.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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