L’Editoriale

Dove va Israele? A colloquio con Nahum Barnea –2° Reportage

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:11 settembre 2012

Israele e Iran: lo scenario peggiore (ma non necessariamente il più probabile) è descritto in un articolo che ha fatto il giro del mondo, pubblicato il 10 agosto scorso sul più diffuso quotidiano del paese, Yedioth Ahronoth. Autori Nahum Barnea, forse il più autorevole giornalista israeliano, ed il suo collega Shimon Shiffer.

In base a quell’analisi, il Premier israeliano Netanyahu e il suo Ministro della Difesa, Barak, pensano di attaccare le basi atomiche iraniane ad ottobre, subito prima delle elezioni presidenziali USA. Il costo della guerra viene calcolato in 375 milioni di dollari al giorno. Barak ammette che l’Iran risponderà all’attacco, anche attraverso gli Hezbollah (che hanno 30.000 missili a 70 minuti da Israele), o la Siria, o anche contro obbiettivi ebraici nel mondo. Ci saranno quindi morti e feriti, ma Israele, sostiene, non verrà distrutto. Questi piani, peraltro, incontrerebbero la decisa opposizione delle forze armate e dei servizi segreti israeliani, nonché dello stesso Presidente Shimon Peres.

Secondo il giornale, i due leader israeliani vorrebbero approfittare della condizione di relativa debolezza di Obama, alla vigilia del voto, per forzargli la mano, spingendolo ad entrare in guerra con l’Iran contro la sua volontà, senza curarsi se questo possa rafforzare elettoralmente il suo concorrente alla Presidenza, Romney: Israele infatti, per condurre l’attacco, ha bisogno dell’aiuto americano.

Avevo incontrato Barnea nel suo ufficio al giornale, qualche settimana prima, e mi aveva anticipato molte di queste valutazioni. Un’azione chirurgica secondo lui è possibile, Israele ne ha acquisito la deterrenza, mi aveva detto, la questione per Israele è il rapporto costi benefici. Certo, l’attacco non distruggerebbe il programma nucleare iraniano, si limiterebbe a ritardarlo: due anni fa la dilazione sarebbe stata di quattro anni, l’anno scorso si era già ridotta a due. D’altronde, ha aggiunto, il rischio di una disseminazione è alto: di fronte ad un Iran nucleare, anche i sauditi acquisteranno la bomba dal Pakistan, hanno i soldi per farlo.

Va detto che lo scenario descritto da Barnea risulta oggi meno probabile. L’ipotesi di un attacco autunnale ha provocato reazioni tali, soprattutto da parte USA, ed in particolare dal Segretario alla Difesa Leon Panetta e di Hillary Clinton, che i due leader israeliani sarebbero stati indotti a modificare i loro piani e sembrerebbero più disposti al rinvio, anche se le dichiarazioni fatte ultimamente da Netanyahu sono tornate ad alzare i toni e a rilanciare la sfida anche contro l’Amministrazione USA.

La conversazione con il giornalista si è rivolta anche ad altri aspetti della vita interna israeliana, a cominciare dall’ondata di proteste sociali che anche quest’estate si è verificata nel paese.

Le manifestazioni in Israele, afferma Barnea, non sono simili a quelle della Primavera araba, ma piuttosto a quelle dei paesi occidentali.

Vi sono differenze con l’anno passato: quelle dimostrazioni erano massicce, con richieste vaghe. La situazione allora era di boom economico, e quel che si poneva era un problema di ripartizione delle risorse. Era la classe media a scendere in strada, pacificamente. Si chiedeva il cambio, l’approccio non era ideologico. Quello che veniva messo in discussione era l’ordine delle priorità. Si domandava la regolazione dei grandi monopoli. L’accento era sulle questioni sociali, con un taglio prevalentemente populista e liberale. La risposta del governo è stata limitata, spesso si è fermato alle parole.

Quest’anno le dimostrazioni sono state più piccole, composte prevalentemente da giovani, più ideologiche e più radicali, spesso rivolte contro la polizia. Quindi meno capaci di influenzare governo e opinione pubblica. Pesa anche il diverso contesto economico, il boom è passato, ora si avverte la crisi, la classe media ha paura.

L’attenzione interna si concentra piuttosto su un altro problema, osserva il giornalista, quello dell’esenzione dal servizio militare degli ultraortodossi (oltre che dei cittadini arabi), prevista dalla Tal Law, che una recente sentenza della Corte Suprema ha dichiarato incostituzionale. La tensione nell’opinione pubblica è altissima.

Anche i religiosi non ultrareligiosi sono contro l’esenzione, anzi sono i più intransigenti. Per loro, si tratta di una questione morale: “Per gli ultraortodossi, pensano, noi siamo meno religiosi di loro, loro si sentono più vicini a Dio”.

La realtà è che si tratta oramai di un numero troppo grande. Gli ultraortodossi sono aumentati in maniera drammatica, anche per la loro più rapida crescita demografica. Le sovvenzioni governative, che hanno permesso agli uomini di questa parte della società di non lavorare e di studiare solamente, sono diventate troppo gravose.

Per molti, in realtà, si tratta solo di una scusa per non fare il soldato. Molti ultraortodossi fanno lavoro nero, altri sono poveri. Le donne ultraortodosse invece lavorano, ma non a tempo pieno, e per lo più ai livelli bassi della forza lavoro. Attualmente quelli di loro che lavorano sono impegnati in lavori di carattere meccanico, o altri lavori marginali, anche molto utili. Alcuni sono impegnati nell’intelligence. Loro cercano di trovare posti di lavoro separati.

La società non può più permetterselo. E’ necessario spostarli verso il mercato del lavoro. Ma l’operazione non è semplice. Nell’esercito vige e funziona il melting pop, e loro non vogliono mescolarsi. Inoltre, nell’esercito ci sono le donne, e loro non ne vogliono intorno.

Gli israeliani in qualche modo vogliono punirli per i privilegi avuti finora. Il problema non è tanto che facciano il servizio militare. Ma l’esercito prepara all’inserimento nella società e nel lavoro. Si deve realizzare un trasferimento molto graduale dal ghetto al mercato del lavoro.

Gli ultraortodossi dispongono di circa 16 deputati alla Knesset, che si occupano solo degli interessi del ghetto. La questione per Netanyahu è complicata: per non scontrarsi con loro non ha esitato a rompere con Mofaz. Ma sa che la situazione attuale è estremamente impopolare, ed i suoi interessi elettorali lo spingerebbero a mettere fine all’esenzione.

Quanto al conflitto israelo-palestinese, la valutazione non è certo ottimistica: la soluzione a due stati – afferma – è sempre meno probabile, perché la realtà statuale di Gaza, diretta da Hamas, appare sempre più irreversibile, ora che un partito fratello, quello dei Fratelli musulmani, è al comando dell’Egitto.

La soluzione ipotizzabile sarebbe quindi quella a tre stati, ma anche quella è difficile, poiché evacuare gli insediamenti in Cisgiordania è oramai quasi impossibile. Sarebbe necessario affrontare un grosso scontro interno, anche tragico. La sinistra vorrebbe farlo, ma non può. La destra potrebbe, ma non vuole. D’altronde non è escluso che Hamas prenda il controllo anche della Cisgiordania.

Le relazioni tra Netanyahu e Abbas sono teoricamente interrotte, ma l’Autorità palestinese combatte contro la ripresa della violenza in quell’area, in costante cooperazione con i servizi di sicurezza israeliani. Essa afferma così il suo potere, e lo esercita ottenendo il tappeto rosso nelle occasioni ufficiali. La realtà è che i due attuali stati palestinesi vivono con la generosità del mondo. Tutto ciò oramai non è più comprensibile né sostenibile, non a lungo.

Viviamo come a Pompei, la differenza è che lo sappiamo e non facciamo niente.

o2° reportage

Il 1° reportage:  “Quanti stati palestinesi” – 31 luglio 2012.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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