L’Editoriale

Israeliani e Palestinesi. Un conflitto bloccato

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 21 dicembre 2015

Il Conflitto Israelo-Palestinese può oggi essere definito un conflitto bloccato. Dopo il fallimento della “Iniziativa Kerry” (condotta dal Segretario di Stato USA John Kerry dal 29 luglio 2013 al 29 aprile 2014), si può dire che le cose non abbiano fatto che peggiorare.

L’ultima sanguinosa crisi a Gaza, nell’estate 2014, ha dimostrato quanto fosse pericolosa l’assenza di un processo diplomatico in atto.

A questo si è aggiunta l’esplosione delle aggressioni individuali di palestinesi, per lo più giovani, che si scagliano contro cittadini ebrei con il coltello o con l’auto (car intifada), ferendoli o uccidendoli.

Il fenomeno aveva già avuto un picco alla fine del 2014, ma poi pareva essere stato riassorbito. È invece riesploso negli ultimi mesi, con epicentro a Gerusalemme ma espandendosi poi alla Cisgiordania e alle stesse aree a predominante popolazione araba nel Nord di Israele.

Va detto subito che ogni atto terroristico, rivolto contro la popolazione civile, è da condannare senza se e senza ma: come ricordava il vecchio leader comunista Luigi Longo, “Le lotte di liberazione nazionale non hanno niente a che spartire con il terrorismo contro i civili”.

Ma non si può non interrogarsi sulle cause che sono all’origine di questa ondata di violenze. Questi giovani sono nati dopo gli Accordi di Oslo, non si sentono vincolati ad essi e ne constatano il fallimento, non vedono speranze e futuro e scendono in lotta per affermare che esistono, che il loro popolo esiste e vuole avere il suo Stato. Influisce anche l’esempio dell’ISIS, che può far presa su questi giovani, facendone una lost generation.

Si tratta di un fenomeno profondo, quasi che la fine di quel fallimentare processo diplomatico abbia ricondotto lo scontro alle sue radici più ataviche, al corpo a corpo più sanguinoso, dove le più raffinate tecnologie possono rivelarsi impotenti a dare sicurezza alla popolazione civile, atterrita dal passante arabo che ti si avvicina e che può rivelarsi il tuo giustiziere.

Ha avuto influenza anche la dimensione religiosa specifica di Gerusalemme, terzo luogo santo dell’Islam dopo la Mecca e Medina, e le accuse rivolte agli israeliani di voler modificare lo status quo, accuse amplificate oltre la realtà ma suffragate dalle provocazioni dei gruppi estremisti ebraici nazionalisti e/o religiosi, supportati da ministri e esponenti di estrema destra della stessa maggioranza governativa. Questo ha spostato il carattere dello scontro dal piano nazionale a quello religioso, anche per l’influenza crescente di Hamas e degli altri gruppi islamici, e le crescenti difficoltà della ANP e specificamente di Fatah.

L’accordo sulla conservazione dello status quo sulla Spianata delle Moschee, mediato da Kerry, tra Israele e Giordania, e specificamente tra Netanyahu e Re Abdallah II, è servito probabilmente a calmare in parte la situazione, ma non a risolverla: gli attacchi infatti continuano e non si riesce a fermarli completamente. Netanyahu ha dovuto dichiarare in un Tweet che “La Spianata è riservata ai musulmani per pregare, mentre i non musulmani possono solo essere visitatori”. Con ciò ha sconfessato le posizioni della estrema destra israeliana, che sostiene il diritto degli ebrei di pregare nella Spianata, posizione sostenuta anche da ministri del suo governo. L’accordo introduce la sorveglianza delle video camere sulla Spianata delle Moschee 24 ore al giorno e per tutti i 7 giorni, per documentare il mantenimento dello Status quo. Vi sono con ogni probabilità anche accordi non pubblici, come l’impegno di Netanyahu a non procedere a nuove ondate di insediamenti nei Territori.

I palestinesi hanno criticato l’accordo, timorosi che i nuovi apparati vengano utilizzati dagli israeliani per sorvegliare e individuare i loro attivisti che vanno sulla Spianata per promuovere proteste. Ma l’accordo serve a Re Abdallah II per ribadire il suo ruolo di protettore dei Luoghi Santi di Gerusalemme e a cercare di evitare nuove crisi generalizzate che potrebbero pregiudicare la stabilità del suo regno.

Diversa è la situazione dei palestinesi. Abbas ha riconfermato il suo rifiuto della violenza e della prospettiva di una nuova Intifada, e la necessità dell’uso di una lotta di massa gestita con mezzi pacifici, ma ora la terminologia usata dalla leadership palestinese è quella della necessità di una “smart resistance” contro l’oppressione, il che segna il desiderio di non staccarsi dall’ondata di proteste in corso, ma anche in qualche modo di incanalarla evitando che diventi una crisi generalizzata e estremamente nociva per i palestinesi, come l’esperienza passata dimostra.

Tuttavia, è anche evidente il desiderio della leadership palestinese di utilizzare l’ondata di proteste in corso per riportare la questione palestinese al centro della attenzione internazionale, oramai concentrata su altre crisi, a partire dalla Siria.

D’altronde è più che dubbio che una più decisa condanna degli attentati da parte della ANP potrebbe avere un forte impatto sui dimostranti, riuscendo a riportare la calma: il discredito della ANP è oramai sempre più forte e diffuso. La leadership del Presidente Mahmoud Abbas declina sempre di più, la sua popolarità è ai livelli più bassi; il conflitto con Hamas resta irrisolto, i ripetuti annunci di accordi tra Fatah e Hamas per riunificare la Cisgiordania a Gaza e indire nuove elezioni sono rivolti a soddisfare le rispettive opinioni pubbliche, ma restano sulla carta, perché nessuno dei due contendenti vuole in realtà attuare gli accordi, preferendo in sostanza lo status quo; lo stesso Fatah appare dilaniato dai contrasti interni e dalla sfida ancora in corso tra il Presidente Abbas e il suo giovane e agguerrito rivale, Mohammed Dahlan, sostenuto dagli Emirati e meno apertamente dallo stesso Egitto.

Hamas e Jihad islamico, dal canto loro, hanno dato pieno sostegno ai martiri, incitando agli attacchi, ma hanno evitato di impegnarsi in prima persona e con i propri attivisti nel confronto, dichiarandosi vincolati all’accordo raggiunto con Israele al termine dell’ultimo conflitto a Gaza. Il loro atteggiamento quindi è di capitalizzare l’ondata di attentati e di proteste, ma senza esporsi in prima persona per non innescare la reazione israeliana.

Quanto a Israele, dopo la inaspettata e forte vittoria di Netanyahu nelle elezioni politiche del marzo 2015, si è formato un governo nettamente orientato a destra, che certo non ha tra le sue priorità la ripresa del processo di pace, il che ha acuito all’estremo i rapporti con gli USA e accresciuto l’isolamento internazionale del paese.

L’accordo raggiunto con la Giordania sulla Spianata delle Moschee offre un po’ di respiro e attenua l’isolamento, ma l’illusione del leader israeliano, di potersi limitare indefinitamente al management del conflitto israelo-palestinese, con qualche concessione sul lato della vita quotidiana dei palestinesi, continuando a rosicchiare qualche altro pezzetto di terra per gli insediamenti ebraici in Cisgiordania, garantendo contemporaneamente la sicurezza ai suoi cittadini, mostra tutta la sua fragilità. Quando a muoversi sono “lupi solitari”, è estremamente difficile per i servizi di sicurezza deterrerli e controllarli, come invece si riesce con le reti e le strutture organizzate.

Ne è dimostrazione evidente il muro eretto all’interno di Gerusalemme per isolare alcuni quartieri palestinesi dai contigui quartieri ebraici per proteggerli, il che contrasta clamorosamente con la pretesa affermazione su “Gerusalemme capitale unica e indivisibile di Israele”.

Per quanto riguarda gli USA, malgrado il ruolo centrale giocato da Kerry nell’ultima crisi, è difficile prevedere un loro pieno reimpegno.  La più grave conseguenza del fallimento dell’Iniziativa Kerry è stata infatti il sostanziale ritiro degli Stati Uniti dall’Area. Lo stesso Obama afferma che oramai la soluzione del conflitto israelo-palestinese non è più all’ordine del giorno, non si realizzerà entro i limiti della sua presidenza, e che anche una ripresa dei negoziati tra le parti è da considerarsi improbabile. Nel suo intervento alla tribuna dell’Assemblea Generale dell’ONU di fine settembre, non ha dedicato una sola parola al conflitto israelo-palestinese. Obama non punta più a risolvere il conflitto, ma solo a gestirlo, in modo da evitare un suo drastico peggioramento, con l’esplodere di nuove crisi generalizzate come l’ultima a Gaza, nell’estate 2014.

Il Presidente USA ha oramai puntato tutte le sue carte di fine mandato sull’accordo con l’Iran, raggiunto nel luglio 2015, e successivamente sulla battaglia per non farlo bocciare dal Congresso americano, conclusasi con successo nel settembre scorso, battendo l’accanita resistenza dei Repubblicani e la strenua opposizione dello stesso Netanyahu, che già nel marzo aveva portato alle estreme conseguenze la sfida ad Obama, con il suo discorso pronunciato davanti al Congresso USA.

L’accordo con l’Iran disegna un nuovo scenario regionale, in cui l’Iran, uscito dall’isolamento, si configura come grande potenza regionale di riferimento, sia come attore principale di alcune crisi, come nello Yemen, sia come indispensabile partner per la soluzione di altre crisi, come in Siria e in Iraq. L’Arabia Saudita non ha più l’esclusiva, nei rapporti con la potenza USA, che ora può tentare di giocare tra i due una sua “politica dei due forni”, appoggiandosi all’Arabia Saudita per arginare l’espansionismo iraniano, ma anche all’Iran ed ai suoi alleati per arginare l’oltranzismo wahabita incarnatosi nel demonio ISIS.

L’incontro tra Obama e Netanyahu di questi giorni non serve che a ratificare questo stato di cose, creando almeno l’apparenza di un ritrovato accordo, con la concessione di garanzie di sicurezza e di sovvenzioni militari straordinarie da parte USA, volte a riequilibrare l’accordo sul nucleare con l’Iran, con l’offerta allo Stato ebraico di nuove e aggiornate garanzie in termini di difesa; e con l’annuncio, da parte israeliana, di nuove “Confidence building measures” verso i palestinesi, dalla maggiore libertà di circolazione, alla rimozione di numerosi blocchi stradali, ai permessi di costruzione di una nuova città palestinese, in Cisgiordania, sita all’interno dell’Area C, sotto completo controllo israeliano, a misure per alleviare la carenza energetica a Gaza e per allentare il rigore del blocco intorno alla Striscia: permettendo così a Obama di riaffermare la sua vicinanza e la sua amicizia con Israele.

Ci sarebbe spazio per un nuovo accresciuto ruolo della UE nell’area, non solo come principale finanziatore palestinese e principale partner economico di Israele. L’Alto Rappresentante per la Politica Estera, Federica Mogherini pare aver fatto passi in questa direzione, ed ha espresso la volontà di un ruolo più complessivo, ma questo fa fatica a concretizzarsi per i noti problemi. E’ di questi giorni l’annuncio della prossima istituzione di apposite etichette da apporre sui prodotti provenienti dagli insediamenti israeliani nei Territori Occupati, che non potranno più fregiarsi della dicitura” Made in Israel”. Provvedimento che ha già scatenato le accese proteste israeliane.

Quanto al tentativo francese di presentare una bozza di risoluzione del conflitto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, esso si è arenato di fronte alle resistenze israeliane, alle critiche pervenute anche da parte palestinese, al mancato sostegno USA, che non hanno fatto cadere la possibilità di ricorrere al loro diritto di veto per bloccarla. Ha invece fatto passi in avanti l’altra proposta francese, l’estensione del Quartetto che si occupa del conflitto (USA, Russia, UE e ONU) a alcuni paesi arabi, principalmente Giordania, Egitto e Arabia Saudita, e ad alcuni paesi europei tra cui l’Italia. Una prima riunione si è tenuta nel corso della Assemblea Generale dell’ONU: un passo che va nella giusta direzione.

Un’ultima considerazione. Lo stallo del processo di pace dimostra che le diplomazie, da sole, non riescono a risolvere questo conflitto, che è troppo radicato e profondo. Devono entrare in campo le società civili, con tutto il loro carico di umanità e di dolore.

E’ quanto cerca di fare, da 26 anni, il CIPMO – Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (www.cipmo.org), costruendo canali di pace e di dialogo tra le parti, organizzando grandi conferenze ma anche piccoli incontri riservati, a livello paradiplomatico ma anche a livello di segmenti di popolazione, giovani leader, giornalisti, donne, sindaci, insegnanti. Una diplomazia costruita dal basso, in nome di una “equivicinanza” che non è equidistanza, che non ignora il conflitto e la necessità di risolverlo, cessando l’occupazione e realizzando uno Stato palestinese che viva al fianco e non al posto di Israele. Ma che vuole essere vicinanza ai bisogni e ai sentimenti più profondi delle popolazioni in conflitto, aiutandole a riconoscersi e a riconoscere l’Altro nella rispettiva insopprimibile umanità, e a rispettarla.

Questa analisi è stata pubblicata su Quaderni di Servitium numero 222, DINAMICHE DEL CONFLITTO.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

Leggi tutti gli EDITORIALI