L’Editoriale

L’incontro Trump-Netanyahu: cosa affiora oltre lo show

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 17 febbraio 2017

Oltre alle evidenti dimostrazioni di vicinanza, simpatia e consolidata amicizia comunemente espressi da Trump e Netanyahu dopo il loro incontro, sono emersi alcuni aspetti salienti su cui converrà soffermare l’attenzione.

Per la prima volta da oltre venti anni, un Presidente USA ha detto di non perseguire come unica possibile via per la soluzione del conflitto israelo-palestinese la soluzione a due stati, l’uno israeliano l’altro palestinese, ma di essere pronto ad accettare anche la soluzione di uno stato unico, se così vorranno le parti in conflitto. L’affermazione può avere una doppia interpretazione, come d’altronde tutto in Medio Oriente: quella di un abbandono, di fatto, della richiesta di creare uno Stato palestinese, che viva al fianco e non al posto di Israele e in pace con esso; ma anche come un ammonimento, rivolto ad Israele (ed anche ai palestinesi) perché siano più disponibili ai compromessi (un richiamo questo espressamente fatto da Trump al leader israeliano in piena conferenza stampa), se vogliono evitare la prospettiva di uno stato unico.

Di fatto, è lo stesso ammonimento rivolto a Netanyahu da Obama e Kerry, negli ultimi anni, secondo cui la possibilità di realizzare due stati andava facendosi sempre più difficile, e entro pochi anni sarebbe diventata impossibile, date le modifiche che andavano verificandosi sul terreno, a partire dalla continua espansione degli insediamenti israeliani.

D’altronde, che la prospettiva di una soluzione a due stati sia sempre più difficilmente realizzabile è una convinzione oramai diffusa sia tra gli israeliani che tra i palestinesi, mentre l’idea di uno stato unico viene prendendo sempre più piede, nelle diverse forme possibili.

Tra queste, va citata la proposta avanzata nel giugno scorso da importanti esponenti israeliani e palestinesi, chiamata “Two States, One Homeland”, che propone una confederazione sul territorio della Palestina storica, in cui i due popoli, ovunque abitino, eleggano separatamente i propri organi rappresentativi e si auto amministrino, gestendo in comune gli aspetti più rilevanti, a partire da quelli della sicurezza.

L’altro elemento è il rinnovato invito di Trump a “trattenersi” sugli insediamenti, modo garbato di riprendere le dichiarazioni presidenziali dei giorni precedenti, in cui il Governo israeliano veniva in sostanza invitato a concentrarsi sui grandi blocchi di insediamenti appena oltre la linea verde (l’antico confine precedente la guerra del ’67), senza espanderne ulteriormente l’area, e a evitare di sviluppare ancora gli insediamenti più avanzati. Ciò che Netanyahu era riuscito a negare a Obama, è più difficile oggi negarlo all’alleato Trump: tanto è vero che Netanyahu ha già dichiarato la volontà di porre un freno alle costruzioni negli insediamenti.

Per quanto riguarda il trasferimento dell’Ambasciata americana a Gerusalemme, questo di fatto è congelato: Il presidente USA ha dichiarato di pensarci, ma di voler esaminare approfonditamente il problema, mentre Netanyahu ha riconfermato l’auspicio senza insisterci troppo (di fatto gli israeliani hanno fatto informalmente sapere all’Amministrazione Usa di non sollecitare la cosa, perché temono che questo possa provocare esplosioni incontrollate tra i palestinesi e nello steso mondo arabo)

Ancora, entrambi i leader hanno fatto riferimento alla necessità di costruire un quadro regionale di garanzie rispetto a qualsiasi accordo, essendo insufficienti quelle che l’ormai fatiscente Autorità Nazionale Palestinese è in grado di assicurare in termini di sicurezza. Questa posizione si collega all’asse che di fatto Israele viene costruendo in funzione anti iraniana con i principali paesi sunniti, l’Arabia Saudita, l’Egitto, la Giordania: una alleanza non dichiarata ufficialmente, ma sempre più operante in termini di sicurezza e di difesa.

Infine, comune è l’atteggiamento di condanna verso l’accordo internazionale raggiunto sul programma nucleare dell’Iran: un accordo che non si chiede e che da parte USA non si intende cancellare, ma che si vuole monitorare attentamente, contrastando con durezza i tentativi di espansione regionale le reiterate minacce anti-israeliane provenienti da Teheran.

Linee, queste, che per quanto riguarda Trump sono l’espressione di una linea politica e di una proposta in via di costruzione, ma che certo non possono essere ridotte, come troppo spesso si fa, a mera propaganda.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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