L’Editoriale 

Palestinesi. Quale futuro dopo le elezioni israeliane

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:13 aprile 2019

Ad alcuni giorni dalle elezioni israeliane, che hanno visto la rinnovata vittoria del blocco di centro-destra, e del suo leader Netanyahu, è utile avanzare qualche considerazione su alcuni punti centrali.

I possibili rinvii a giudizio che pesano sulla testa di Netanyahu (ed il nuovo caso della vendita dei sottomarini tedeschi che sta riaffiorando), non paiono aver influenzato molto l’esito del voto, e non dovrebbero ora impedirgli di formare un nuovo esecutivo e di governare. Certo, sarà difficile far passare una legge “alla francese”, che rende immune i Capi di Stato e di Governo da possibili persecuzioni giudiziarie ordinarie. La maggioranza su cui può contare il leader Israeliano è di 5 seggi, ed è sicuro che i suoi alleati di destra, a cominciare da Avigdor Lieberman, capo di Yisrael Beitenu (5 seggi), e Moshe Khalon, leader di Kulanu (4 seggi), cercheranno di fargli pagare il pressante drenaggio cui sono stati sottoposti a favore del Likud.

Ma Netanyahu potrebbe decidere di governare anche se sottoposto a processo e di attenderne l’esito, cosa che formalmente la legge non pare impedire, ed i suoi potenziali alleati dovrebbero consentire.

E’ tuttavia probabile che tutto questo mercato possa ancora una volta riversarsi su quel che resta della Cisgiordania, ove l’ampliamento degli insediamenti esistenti, se non addirittura la loro annessione, potrebbe essere la moneta di scambio pagata agli alleati di estrema destra per consentire a Netanyahu di affrontare la tempesta giudiziaria. Lo stesso Netanyahu ha fatto riferimento a questa possibilità, negli ultimi giorni di campagna elettorale, per catturare il voto dei coloni, o per indicare una nuova possibile direzione di marcia. D’altronde, il riconoscimento effettuato dal Presidente Trump della sovranità israeliana sulle alture del Golan siriano, conquistate nella guerra del ’67, costituisce un precedente anche per quei territori palestinesi, che di trovano nella stessa condizione giuridica.

Lo stesso “Ultimate deal”, il piano di pace preannunciato dall’amministrazione Trump fin dai primi giorni della sua elezione, e che dovrebbe essere presentato subito dopo la formazione del nuovo Governo israeliano, potrebbe spingere in questa direzione: si prevede che esso sia del tutto sbilanciato a favore di Israele, prevedendo il passaggio ad Israele dei grandi blocchi di insediamenti, il controllo sulla valle del Giordano, oltre al già avvenuto riconoscimento di Israele come Capitale dello Stato ebraico. Netanyahu dovrebbe essere in grado di farlo approvare dal suo nuovo governo, sia pure con riserve, e probabilmente con il voto contrario dei ministri dell’Unione di destra, di cui fanno parte gli eredi del razzista Rabbino Kahan. Se, come è sicuro, sarà l’Autorità Nazionale Palestinese a respingerlo, questo potrebbe dare l’avallo proprio a quel processo di nuove annessioni, e alla possibile dissoluzione della stessa Autorità Nazionale Palestinese.

D’altronde, la leadership dell’ANP pare del tutto isolata nell’attuale contesto arabo: i grandi Stati sunniti sono impegnati nella costruzione della nuova Middle East Strategic Alliance (MESA), la cosiddetta NATO araba in funzione anti iraniana, guidata dall’Arabia Saudita insieme agli USA e cui parteciperebbero gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain, il Kuwait, l’Oman, il Qatar e la Giordania, mentre sia l’Egitto che sul versante opposto la Turchia non avrebbero aderito al progetto. La costruzione di uno Stato palestinese pare l’ultimo dei loro problemi. Forse questi Stati non arriveranno a far proprio ufficialmente il Piano Trump, ma è difficile che vi si contrappongano. Anche per loro il rapporto con Israele e con la sua forza militare e di intelligence è essenziale per la costruzione della nuova alleanza.

In condizioni relativamente migliori è Hamas, che dal 2007 controlla la Striscia di Gaza. Netanyahu è assai più interessato al mantenimento della calma su quel confine, che a quanto accade in Cisgiordania, su cui ritiene di poter mantenere comunque il controllo. Dato l’arsenale di missili a medio raggio di cui dispongono le formazioni islamiche della Striscia, un nuovo scontro generalizzato provocherebbe sicuramente guasti ed anche perdite gravi nella popolazione civile israeliana. Si può quindi affermare che vi è una coincidenza di interessi di medio termine tra Netanyahu e la leadership islamica della Striscia: entrambi sono interessati a una tregua di lunga durata, entrambi sono contrari ad un negoziato finale che chiuda il conflitto.

In questi ultimi anni si è molto discusso se lo sbocco possibile del conflitto israelo-palestinese fosse quello di uno Stato o di due Stati. Il più probabile, nella attuale situazione, è quello dei tre Stati, o meglio quello dei due Stati e mezzo: Israele, una forma statuale a Gaza, e una Entità indefinita in Cisgiordania, continuamente erosa boccone a boccone dagli insediamenti israeliani, se non amputata in blocco con l’annessione di una sua larga parte.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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